27 set 2007

LA DONNA DI BOCCACCIO


Qual è la figura femminile che Boccaccio propone all’interno delle sue opere?
Da un punto di vista formale, la donna viene ancora presentata come un angelo, ma rispetto all’ideale femminile lanciato dallo Stilnovo siamo sicuramente di fronte ad una figura originale e per molti tratti innovativa.
La dama di Boccaccio, infatti, non se ne sta umilmente ripiegata nella sua ingenuità, tutta intrisa di valori spirituali e morali, forte della sua casta dignità, come abbiamo potuto osservare nelle figure di Beatrice e di Laura; piuttosto la donna del Decameronall'ombra di mille arbori fronzuti, in abito leggiadro e gentilesco tende lacci con gli occhi vaghi e col cianciar donnesco.”
Si tratta di una figura femminile più vezzosa e civettuola, sempre calata in un contesto di vita comune, che il poeta, tuttavia, continua a celebrare in forma platonica e tradizionale, come si può osservare dalla lettura di questo sonetto:


Sulla poppa sedea d'una barchetta,

che 'l mar segando presta era tirata,
la donna mia con altre accompagnata,
cantando or una, or l'altra canzonetta.
Or questo lito ed or quell'isoletta.
Ed ora questa ed or quell'altra brigata.
Di donne visitando, era mirata
Qual discesa dal ciel nuova angioletta.
Io che seguendo lei vedeva
farsi da tutte parti incontro a rimirarla
Gente, vedea come miracol novo:
ogni spirito mio in me destarsi
sentiva, e con Amor di commendarla
vago non vedea mai il ben ch'io provo.

Da una parte, quindi, il ricorso ad una forma letteraria ancora convenzionale e il riutilizzo costante dei topoi tipici della poesia cortese, dall’altra un contenuto per molti aspetti nuovo. Una scena dal sapore tutto “napoletano” fa da contorno alla figura della donna amata, sorpresa mentre si reca per mare, con alcune amiche, a visitar “altra brigata di donne”, canticchiando canzoni leggere ed allegre.
Boccaccio ancora si rivolge alla donna chiamandola “angioletta”, ma è facile osservare come l’immagine ora proposta si discosti, per molti aspetti, da quella tradizionale.




All’interno del Decameron (1348-53), inoltre, la figura femminile viene a rivestire un’importanza tutta particolare.
Nella seconda metà del Proemio, a partire dal paragrafo 3, Boccaccio identifica nelle donne il pubblico della sua opera.
Sono qui riscontrabili precise allusioni al V canto dell’Inferno dantesco: come Francesca («quanti dolci pensier»: If. V, 113), le donne-pubblico del Decameron rimuginano «diversi pensieri» (Dec. Proemio, 10) e, come Paolo e Francesca (If. V, 113, 82, 120), anche le donne del Decameron sono spinte dal disio d’amore.
Una ripresa che indica, in entrambi gli autori, un definitivo superamento dello stilnovo e della concezione cortese dell’amore. Questo superamento si evolve, però, in due direzioni del tutto autonome.
In Boccaccio, infatti, i «piacevoli» (Dec. Proemio, 4) e i «nuovi ragionamenti» (Dec. Proemio, 11), e cioè la letteratura e il racconto, hanno il compito di far superare la noia che deriva dal sentimento amoroso, nella concezione, dunque, di una letteratura volta a promuovere non la coscienza del peccato e il pentimento, come in Dante, ma le facoltà dell’intelligenza e della lucida razionalità (ai fini non della repressione, ma del controllo delle passioni).
Boccaccio individua il pubblico delle donne come il pubblico ideale in quanto, per una serie di limitazioni che derivano dal loro ruolo nella società, esse sono più attente e vivono più intensamente il sentimento amoroso.
Nel momento in cui Boccaccio recupera le donne come pubblico ideale, come destinatario privilegiato della sua opera, scende allusivamente in polemica con Dante, dato che questo pubblico è formato da donne che non si limitano alle faccende domestiche, a una vita di silenziosa laboriosità, ma vivono una dimensione fantastica e creativa, senza reprimere la propria immaginazione:
Adunque, acciò che in parte per me s’amendi il peccato della fortuna, la quale dove meno era di forza, si come noi nelle dilicate donne veggiamo, quivi più avara fu di sostegno, in soccorso e rifugio di quelle che amano, per ciò che all’altre è assai l’ago e ‘l fuso e l’arcolaio, intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo, raccontate in diece giorni da una onesta brigata di sette donne e di tre giovani nel pistelenzioso tempo della passata mortalità fatta, e alcune canzonette dalle predette donne cantate al lor diletto.”
(Dec. Proemio, 13)

Qui Boccaccio esclude dal pubblico dei suoi lettori le donne povere di spirito che si contentano dell’ago, del fuso e dell’arcolaio, espressione che richiama i seguenti versi danteschi con valore però perfettamente antitetico:

Vedi le triste che lasciaron l’ago,
la spuola e ‘l fuso, e fecersi ‘ndivine
(If. XX, 121-122)

In Dante, infatti, le donne che hanno tradito i lavori domestici vengono dipinte negativamente, mentre vengono esaltate le donne della Firenze antica, che sono umili e dedite esclusivamente al lavoro domestico.
Boccaccio, proprio alludendo ai versi della Commedia, elenca fra gli attrezzi domestici l’ago, il fuso e l’arcolaio (cfr. spuola): la sua prospettiva risulta, però, del tutto rovesciata.
Nella conclusione del proemio, Boccaccio ribadisce ancora, attraverso nuove allusioni al canto V dell’Inferno, la propria concezione della funzione della letteratura, che per Dante è pericolosa qualora non sia filtrata da una decodifica etica; si spiega così l’immagine di Paolo e Francesca, che leggono per diletto e che per questo si perdono: «Noi aleggiavamo un giorno per diletto / di Lancialotto come amor lo strinse»: If. V, 127-128).
A tutto ciò Boccaccio contrappone l’immagine ideale di un lettore che dalla fruizione del Decameron riceverà insieme diletto e «utile consiglio».

Un’altra opera importante per cogliere i tratti della figura femminile proposta da Boccaccio è un altro romanzo in prosa, l’Elegia di Madonna Fiammetta (1343-44), la cui stesura precede quella del Decameron.
La narrazione procede seguendo il punto di vista di una dama napoletana, Fiammetta, abbandonata dall’amante Panfilo. La donna attende invano il suo ritorno, ricordando i tempi dell’amore felice, struggendosi di passione e di gelosia.
L’opera assume la forma di una lunga lettera, rivolta alle donne innamorate.
La protagonista Fiammetta si colloca al termine di una lunga serie di eroine abbandonate della poesia antica (dall’Arianna del carme LXIV di Catullo alla Didone del canto IV dell’Eneide), e nell’opera sono continui i rimandi e le citazioni colte.
Tuttavia è molto importante che qui la parola venga data alla donna stessa, a prescindere dal fatto ciò ricalchi lo schema del lamento dell’abbandonata. Nella tradizione cortese, infatti, la donna era solo oggetto del vagheggiamento da parte dell’uomo, idolo remoto e irraggiungibile, privato di una propria soggettività; qui, invece, la donna diviene soggetto amoroso e confessa la propria passione sentimentale e al tempo stesso carnale.
Ancora una volta, un antecedente può essere trovato nella Francesca del V canto dell’Inferno, che confessa il suo amore per Paolo in termini arditamente sensuali. Tuttavia, mentre per Dante l’infelice eroina era un esempio negativo di lussuria da condannare, Fiammetta, ricolma di passione, ha tutta la simpatia e la partecipazione dell’autore.
Agisce qui, infatti, una concezione naturalistica dell’amore, non più considerato come un peccato, ma come un istinto naturale del tutto legittimo.
Il personaggio boccacciano, nato da tale concezione, può essere visto allora come rovesciamento della figura di Beatrice, nata da una concezione spirituale e sublimante dell’amore.



Nessun commento: